LA CULTURA DELLA PRODUZIONE. L'IDENTITÀ DI BOLOGNA E DEL SUO TERRITORIO ALL'ESTERO

 
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Prodotto Bologna. Un'identità industriale con cinque secoli di storia

           

 

 

 
 

Roberto Curti Direttore del Museo del Patrimonio Industriale

"Prodotto a Bologna. Una identità industriale con cinque secoli di storia" non è solo l’argomento da cui trarrò alcune considerazioni, ma anche il titolo del progetto espositivo che il Museo del Patrimonio Industriale inaugura venerdì 22 settembre p.v. nell’ex Fornace Galotti, nell’ambito delle manifestazioni di Bologna 2000, città europea della cultura. Iniziativa che porta il Museo a pieno regime di funzionamento come risultato di una crescita e sperimentazione che dura da vent’anni.

Ho voluto sottolineare questo evento perché la presenza a Bologna di una istituzione dedicata al patrimonio industriale (e al modello di società che lo ha espresso) contribuisce a trasmettere un’immagine più moderna di quella "cultura del territorio" che si cerca di valorizzare. Peraltro, in questo caso, recuperiamo ritardi su esperienze che non mancano in altri paesi europei e nord americani e che anche altri centri dell’Italia settentrionale cercano di costituire.

Sono istituzioni con tante diversità tra loro ma con uno scopo comune: interpretare e spiegare (c’è chi dice "illustrare") contesti produttivi riferiti all’area d’insediamento, secondo metodologie tratte principalmente dalla storia economica e dalla pratica di ricerche interdisciplinari indispensabili alla decodifica di fonti complesse come sono, macchine, tecnologie, networks. Le collezioni in genere si formano proprio sulla base di questi itinerari che funzionano come passwords di accesso alla conoscenza del patrimonio considerato.

Per Bologna 2000 useremo quella di casi/prodotto affermatisi sul grande mercato internazionale negli ultimi cinque secoli di storia industriale della città, per aprire sistemi di conoscenze quali: organizzazione d’impresa; tecnici e figure imprenditoriali; innovazioni; qualità e capacità competitive. Lo sviluppo di questa metodologia ha reso possibile l’incontro tra il Museo e i protagonisti diretti (produttori; aziende; associazioni professionali; enti che agiscono nella realtà economica del territorio) per promuovere identità d’area e cultura dell’innovazione come elementi importanti per assicurare nel tempo la continuità del processo. Un primo tratto significativo di questa identità, lo definirei di posizionamento temporale. Bologna ha una storia industriale di lungo periodo e la durata conta molto nel formare una identità.

La città, sin dal secolo XV, dà vita ad un network urbano d’industria serica per la produzione di filati e veli, ormai studiato approfonditamente dagli storici economici, che costituisce un punto di riferimento avanzato sia tecnologico che mercantile per tutta la civiltà europea dell’epoca.

Solo alcuni dati: più di 400 ruote idrauliche muovono più di 130 opifici (mulini da seta) in un’area di circa due chilometri quadrati con forti innovazioni introdotte nelle macchine (torcitoi ed incannatoi) e nell’impiego dell’energia idraulica (distribuzione a rete); più di 12 000 tessitrici lavorano a domicilio con proprio telaio e più di 24 000 persone traggono da vivere con occupazioni nell’indotto (in botteghe e manifatture); alcune decine di mercanti/imprenditori organizzano, pur non gestendole direttamente, tutte le fasi della lavorazione (dalla seta greggia al prodotto finito); la quasi totalità della produzione (circa 200 000 libbre all’anno, equivalenti a 77 tonnellate) viene esportata sul grande mercato internazionale.

È vero che quando la Rivoluzione Industriale si diffonde (prima metà del secolo XIX) Bologna in controtendenza si deindustrializza con la scomparsa del setificio. Ma proprio il modo di concepire la ripresa e la sua metamorfosi industriale (transfert di istruzione tecnica e di cultura meccanica alle maestranze), la durata che questo processo comporta (più di un secolo), il punto di approdo (nascita di un sistema produttivo avanzato di medie e piccole imprese meccaniche ed elettromeccaniche nuovamente competitive sul grande mercato internazionale) rendono Bologna ancora una volta un caso emblematico dello sviluppo industriale nell’età contemporanea.

Anche in questo caso alcuni dati aiutano a capire. Se prendiamo ancora l’export come indice di affermazione rilevato dai dati ISTAT 1998 rielaborati dall’Unioncamere Emilia-Romagna, risulta che i settori che caratterizzano il distretto (meccanica ed elettromeccanica) coprono il 70% delle esportazioni totali di Bologna e provincia (di cui le macchine automatiche il 42%; la motoristica l’11%; le macchine elettroniche il 10%; poi seguono il sistema moda con il 10% e altri tra cui l’alimentare con il 3%). Inoltre secondo la top ten dei prodotti della banca/dati commercio estero sempre dell’Unioncamere, le prime posizioni vanno alle macchine automatiche seguite dalla motoristica. Ma dove si esporta? Per il 55% nell’Unione Europea; per il 12% nel resto dell’Europa; per il 10% negli USA e altrettanto in Asia, Giappone compreso; per il 18% in Australia, Oceanica, Africa. Questo vuol dire che il tipo di prodotto condiziona l’esportazione. Quelli bolognesi, ad alta tecnologia, implicano acquirenti a sistema industriale molto sviluppato.

Il secondo tratto che voglio ricordare, lo chiamerei di posizionamento economico nella geografia dello sviluppo.

I dati che ho appena riferito ci fanno capire bene cosa si debba intendere oggi con questo parametro. Anche se il modello di Bologna nel moderno circuito dell’industrializzazione, presenta oggi problemi di maturità, di nuovo sviluppo, di nuove frontiere da trovare alle filiere dei settori produttivi. Questo significa disporre di risorse umane con competenze adeguate, capacità manageriali, finanziarie ed innovative forse più complicate rispetto al passato. È questa la sfida dell’internazionalizzazione dei processi che riguarda tutti i partners del circuito entro cui Bologna è collocata. Ma se questo è il presente/futuro, come si collocava nel passato Bologna rispetto all’area strategica dello sviluppo?

A partire dall’età comunale Bologna ha fatto parte dell’area "forte" del continente europeo, quella che comprendeva centri dall’Italia settentrionale fino alle Fiandre e poi dal secolo XVIII altri della Gran Bretagna. In questa striscia di civilizzazione (detta "blue banana" dagli storici economici), in questa dorsale europea, sono accadute fino alla seconda metà del secolo XIX cose fondamentali.

Si è sviluppato l’urbanesimo; la cultura e le istituzioni culturali hanno messo radici e sono cresciute; l’economia e i traffici hanno cambiato la vita e i consumi; la tecnologia si è innovata; lì sono nate forme e modi di essere della società industriale. Stare in quest’area ha significato partecipare alla serie A della storia europea, cioè registrare insieme crescita economica (star meglio quantitativamente) e sviluppo economico (miglioramenti anche qualitativi). L’antica industria serica sopra descritta, ma anche le idee e le strade percorse per realizzare la moderna metamorfosi industriale di Bologna, trovano lì le loro radici.

Il terzo e ultimo tratto che voglio ricordare è che questa storia mette in discussione e costringe a re-impostare questioni che sembravano acquisite e che riguardano importanti sequenze interpretative del processo d’industrializzazione.

Mi riferisco in primo luogo alla nascita della Rivoluzione Industriale che viene descritta come un "miracolo" avvenuto in una piccola area circoscritta ad alcune zone della Gran Bretagna della seconda metà del secolo XVIII. Tutto accade dopo una lunga fase buia dominata dal lavoro di bottega, dal piccolo mercato e dall’arretratezza, definendo il crinale cronologico dei libri di testo delle scuole di tutto il mondo. È vero, produttività e macchinismo raggiungono vette mai conosciute e decolla insieme ad un nuovo modo di produrre anche una nuova società che poi si diffonde nel resto del mondo.

Senza nulla togliere agli eventi della Rivoluzione Industriale inglese, che resta l’area in cui il fenomeno si manifesta come elemento irreversibile, altre aree tra cui anche Bologna mettevano in evidenza che il processo era più complesso; che la corsa che realizzava questa trasformazione cominciava prima; che alcuni pezzi fondamentali del meccano sono già visibili nella "dorsale continentale", prima a Bologna e poi in altri centri per la produzione serica (anche inglesi, vedi Derby). Sono il sistema di fabbrica e il lavoro salariato (mulino da seta); la standardizzazione di prodotto (velo); l’intreccio e la cooperazione di diverse forme produttive (bottega artigiana, manifattura, sistema di fabbrica, putting out system); presenza di mercanti/imprenditori che centralizzano le lavorazioni presenti nel ciclo produttivo con forme di organizzazione che saranno tipiche dello sviluppo maturo dell’impresa (trusts e cartelli).

Ma non possiamo dimenticare, e in parte l’ho già detto, che anche la struttura moderna del distretto introduce importanti aggiornamenti nella sequenza che ha dominato per più di un secolo l’interpretazione del moderno sviluppo capitalistico. Cioè quella che considerava la struttura della grande impresa e la produzione di serie per un mercato di massa punto inevitabile di uniformazione per ogni altra esperienza, per ragioni di efficienza e di economicità. Solo dagli anni 1970 (con gli studi di Giacomo Beccantini) veniva ri-scoperto (perché Marshall lo aveva già capito alla fine del secolo scorso studiando la realtà inglese di Sheffield) che anche un sistema d’area formato da medie, piccole e piccolissime imprese determinava produzioni ed economie di scala in grado di competere con la grande impresa. E in alcuni casi di vincere il confronto.

È il modello di Bologna, quello di prodotti personalizzati sulle esigenze di ogni cliente, attratto da questa rispondenza piuttosto che da riduzioni di prezzo; un sistema con essenziali meccanismi di interazione tra strutture produttive, sociali ed istituzionali. Certo le suggestioni e le esigenze indotte dagli scenari e dallo sviluppo dall’industrializzazione di massa (macchinismo diffuso, motoristica per tutti, grande consumo di prodotti confezionati ed imballati, sviluppo della comunicazione, dell’automazione) creano occasioni per soluzioni e prodotti di cui le diffuse officine meccaniche di Bologna sono capaci.

Qui si impiegano tecnici e manodopera qualificata (una parte rilevante degli operai entra in fabbrica con competenze acquisite precedentemente nella scuola tecnica e/o in corsi di formazione); qui le direzioni tecniche e le maestranze specializzate collaborano tra loro (dall’area operaia è possibile passare quella tecnica ed imprenditoriale). Per queste aziende lavora una rete di sub/fornitori da cui è possibile passare alla produzione per il mercato. Nell’epoca dominata dalla meccanica, in questi distretti agisce un’innovazione concettuale (nuovi prodotti) originale che ha segnato percorsi imprenditoriali diversi e di successo. E questa storia fa ben sperare. Perché spiega che non c’è una sola strategia per lo sviluppo; che i sentieri da percorrere possono essere diversi; quindi che esiste la possibilità anche di nuove sperimentazioni.