COME PROMUOVERE L'IMMAGINE DELL'ITALIA DI OGGI ALL'ESTERO

 
 

Made in Italy: cultura, innovazione e immagine come prodotto commerciale per l'estero

           

 

 

 
 

Piero Fassino Ministro per il Commercio con l’Estero

I titoli - avendo fatto per anni e anni l’organizzatore di dibattiti l’ho imparato in prima persona - sono sempre per loro natura sintetici, e la sintesi spesso non può che enfatizzare o estremizzare i concetti; ma "Tra cultura e "Made in Italy"" è un titolo che va interpretato, perché non sono poli opposti, non c’è una "cultura" e poi un "made in Italy" che non ha a che vedere con essa: il made in Italy è parte della cultura di questo paese, è una delle sue identità culturali, e ne è anche uno degli elementi di immagine, come ricordava adesso efficacemente e con molti esempi Landi. Non solo essi non sono poli opposti, ma non sono neanche così distanti.

In realtà, quando si dice "Made in Italy" ci si riferisce al fatto che questo è un paese nel quale ha un particolare valore, in modo talmente forte da esserne diventato immagine e simbolo, il senso estetico. In fondo che cosa unifica il "Made in Italy"? Il valore dell’estetica: "Made in Italy" è mangiare bene, "Made in Italy" è vestirsi bene, "Made in Italy" è vivere bene, in un ambiente gradevole, "Made in Italy" è tutto questo; quando si pensa al "Made in Italy" – tradotto in un vestito di Armani piuttosto che in un Brunello di Montalcino o in una macchina di design Pininfarina – si pensa a prodotti che, dal punto di vista della loro qualità e della loro fruizione, hanno un alto contenuto estetico.

Il "Made in Italy" è un elemento centrale dell’identità culturale di questo paese; qui si fanno le scarpe in un certo modo perché questo è un paese che ha un certo gusto estetico, una certa storia, questo è il paese del Rinascimento, di Raffaello, di Leonardo ...tutto questo conta, perché fare una scarpa non è difficile di per sé, non c’è neanche da metterci nessun microprocessore: è pelle, il prodotto più vile del mondo dal punto di vista materiale; non è neanche competitivo in termini di costo, perché le scarpe di Formosa o delle Filippine si fanno con un costo del lavoro 30 volte minore. Però se andate sulla Quinta Strada di New York, si vendono solo scarpe italiane, non quelle filippine e neanche quelle francesi; ci sono solo quelle italiane perché c’è un elemento di innovazione di qualità costituito dal gusto, dal design, da come è fatta ed è trattata la pelle, da come si presenta.

Dire "Made in Italy" significa questo, connotare l’identità del paese come un paese capace di incorporare nella materia e nel prodotto un’alta dimensione estetica, che si traduce poi nella percezione di gran parte dei cittadini del mondo in una dimensione estetica che rappresenta un’alta soglia nella qualità della vita.

Tutto questo dobbiamo essere capaci di trasmetterlo più di quanto già non si faccia. L’immagine dell’Italia, come quella di qualsiasi paese, è caratterizzata da un certo profilo, che per noi è quello estetico; noi viviamo questa nostra dimensione quasi come una diminutio; si dice "la moda è mondana": frase priva di senso, però radicata nel giudizio di valore dell’opinione pubblica; a parte che mondano deriva da mondo, dunque ci appartiene quindi non capisco perché la mondanità dovrebbe avere un giudizio di valore negativo. Ma, a parte questo, la moda è sì un fatto mondano ma, dietro quella mondanità, c’è uno spessore di professionalità, di know-how, di sapere, di lavoro, di innovazione, di ricerca, di qualità, di straordinario valore. Non è vero che sotto il vestito non c’è niente, sotto il vestito c’è moltissimo. Così come c’è moltissimo in termini di professionalità, di lavoro, di capacità nella cucina italiana; così come c’è moltissimo in termini di lavoro, di professionalità, di saper fare, di capacità nelle varie dimensioni del "Made in Italy", dal mobile all’arredamento. Si tratta dunque di una risorsa preziosa. Ho detto qualche settimana fa, andando a Milano a "Collezioni Moda" - dove sono andato perché ritengo giusto che il Ministro per il Commercio estero vada e si occupi di moda - che la moda è il petrolio italiano, che se ci fosse un’Opec della moda noi ne saremmo i presidenti.

Il fatto di essere un paese del "Made in Italy", inteso come un paese che ha un profilo fortemente estetico non va vissuto come una diminutio, come qualcosa di effimero, come qualcosa di banale e di superfluo: va vissuto come un elemento di forza. Purtroppo così non è. Il paese non vive questa sua identità come un elemento di forza perché siamo tutti figli di una cultura industriale, pensiamo che l’innovazione ci sia solo se c’è un computer, così come una volta solo in presenza di una bella macchina stampante che stampava qualcosa, un tornio. Se c’è quello c’è l’innovazione, altrimenti non c’è. Mentre, invece, fare un buon olio richiede una capacità innovativa esattamente come fare un buon computer; fare un vestito di Armani richiede una capacità professionale, di ricerca sul prodotto e sul materiale esattamente come fare un buon tornio. L’innovazione non è qualcosa che appartiene a un settore piuttosto che a un altro, perché se fosse così non si capirebbe perché l’Olivetti abbia chiuso; non basta saper fare un computer o un microprocessore, dipende da che computer fai. In Italia è andata per lungo tempo per la maggiore una tesi del tutto sbagliata, secondo cui ci sono i settori maturi e i settori non maturi. E’ una tesi del tutto accademica ed astratta perché non esistono i settori maturi in sé e i settori non maturi in sé: esistono settori nei quali puoi incorporare il massimo di innovazione incorporabile in quel settore – e in questo caso non è maturo – oppure non sei capace di farlo, e in questo caso diviene maturo.

L’Italia deve essere molto più consapevole della forza economica, sociale e culturale che esprime come paese dell’estetica, del gusto e di ciò che, a partire da questo profilo, deriva.

Ma l’Italia non è solo questo. Essa però vive come un fatto prevalentemente di mondanità, intesa in senso negativo, l’essere il paese del "Made in Italy", e quindi deprime una potenzialità che gli è riconosciuta, senza poi essere capace neanche di riconoscere che, oltre a tutto questo, è un grande paese anche in tanti altri settori. Qualsiasi cittadino italiano crede che, se bisogna comprare una buona macchina per produrre qualche cosa sia meglio andare in Germania, perché l’immagine della Germania è legata al produrre e, in particolare, alla tecnologia meccanica. Ma nel 50% del settore dei beni strumentali, l’Italia è paese leader nel mondo: dalle macchine per fare il meccano-tessile, alle macchine per la calzatura, alle macchine del legno, al "packaging", alle macchine tipografiche, alla componentistica alta. E non è neanche strano, perché se siamo così forti nella moda è evidente che siamo anche così forti nelle macchine per produrre quel bene finale, sarebbe infatti assai difficile fare dei buoni prodotti avendo delle macchine pessime. Nel settore del machinery, dei beni strumentali, delle tecnologie – sia meccaniche sia informatiche – siamo un paese forte: ci sono imprese italiane che i robot ai giapponesi li vendono e non li comprano. Il più grande gruppo siderurgico mondiale giapponese ha appena concluso una joint-venture con il gruppo Tekint-Dalmine, in cui i giapponesi hanno voluto che la joint-venture si facesse al 51% per Dalmine e che fosse Dalmine a gestire questo enorme impianto siderurgico che è il più moderno e il più avanzato del mondo, per fare il più banale esempio di questi giorni. In Giappone il più grande e più moderno stabilimento siderurgico giapponese è una joint-venture italo-giapponese gestita dagli italiani.

Questa è una immagine che il paese non riconosce di sé e che il mondo non ha: un altro fattore che dobbiamo essere capaci di mettere in campo. Non si ha piena consapevolezza di tutto ciò che rappresenta in termini di forza il "Made in Italy", non si ha consapevolezza che il "Made in Italy" è assai più largo di quello che si pensa e che in realtà, noi siamo un grande paese, espressione che nessuno mai usa. Ho visto che Ciampi oggi la usa e me ne compiaccio, tanto più che è il Presidente della Repubblica; ma in genere questo è un paese nel quale uno dice che l’Italia è un "bel paese", ma quasi mai sentite dire da un italiano che questo è un "grande paese", invece io sono convinto che lo sia. E anzi, avendo ormai da molti anni, anche prima di fare il Ministro del Commercio Estero, per ragioni di lavoro l’occasione di girare moltissimo il mondo, la cosa che mi ha colpito è che c’è un’immagine dell’Italia molto più forte fuori del paese; c’è un immagine dell’Italia più forte nel mondo di quella che hanno gli italiani stessi. Badate che questo è un grande problema, perché vale per le nazioni ciò che vale per gli individui: se uno non ha consapevolezza di sé è meno forte. E un paese che non abbia coscienza di quello che è - e avere coscienza di quello che si è, se non si è presuntuosi e arroganti, significa consapevolezza dei punti di forza e consapevolezza delle debolezze - è un paese che non gioca tutte le carte che ha, quindi un paese obiettivamente più debole.

Questo è un problema culturale. Ci sono tante ragioni, sarebbe interessante dedicare una riflessione ampia e non un intervento di pochi minuti, del perché l’Italia sia un paese che ha il rischio costante di una crisi di autostima del perché non abbia coscienza di sé. Una, per esempio, è che siamo un paese che ha soltanto 130 anni di storia nazionale unitaria: sembra una sciocchezza, ma non lo è; i grandi paesi che hanno una forte identità – come Francia, Inghilterra o Spagna – sono paesi che hanno una storia unitaria di secoli, che hanno dominato il mondo, che hanno avuto imperi: conta tutto questo nella storia di un popolo; un popolo ha dei codici genetici esattamente come un individuo; se poi in questi 130 anni ci mettete anche vent’anni di fascismo, la sua esasperata logica nazionalistica, capirete perchè, per reazione contraria, nell’immediato dopoguerra non essere nazionalisti diveniva giusto, e ciò giungeva fino a negare anche il valore dell’identità nazionale, per cui una parola come Patria per molti anni non è stata più pronunciabile. E lo dico da un uomo di sinistra, che è però appartenuto ad una famiglia di sinistra in cui la parola patria è stata sempre pronunciata senza averne paura. Dunque ci sono tante ragioni di natura storica, culturale, politica. Tuttavia questo è il dato: un paese che ha una coscienza di sé minore di quello che il paese è ed esprime. Vorrei essere chiaro nel dire questo, anche se poi ovviamente non ignoro tutte le debolezze di natura strutturale che il nostro paese ha e tutti i punti di fragilità. Bisogna però tenere bene in mente che se non sei sicuro di chi sei, di che cosa vuoi e di che cosa hai, non sei neanche in grado di superare le tue fragilità e le tue debolezze. Il recupero della coscienza di sé: questo è il problema fondamentale che il paese ha di fronte, ed è un problema culturale prima ancora che politico ed economico.

Questo, e concludo, spiega perché noi per lunghissimo periodo abbiamo avuto una difficoltà strutturale a presentarci come sistema-paese: si tratta di un limite che abbiamo avuto e che oggi cerchiamo di superare, seppur con molta fatica e fra molte difficoltà, perché non è solo un problema di strumenti — che ci sono — ma anche un problema di testa e di cultura. Il problema è che, per usare gli strumenti, devi avere una concezione sistemica in testa, cioè un’idea di sistema-paese, devi essere convinto che giocare il sistema-paese vale e conta ed è un valore aggiunto. Se, invece, sei convinto che il tuo paese non vale e non conta, non sei neanche portato a metterlo in gioco e a usarlo: è un problema culturale prima ancora che un problema di strumentazione.

Noi abbiamo tradizionalmente avuto difficoltà a fare sistema, cioè a proiettare sui mercati internazionali non la singola impresa, perchè la singola impresa italiana sui mercati internazionali ci va da molto tempo con uno straordinario coraggio, e proprio perché ci va quasi sempre da sola, ci va con una capacità di sfida e di competizione anche più forte e molto spesso vincente bensì a produrre una proiezione di sistema, a proiettare il sistema-paese. Questa difficoltà però è sempre meno accettabile e sostenibile, perché nella globalizzazione la competizione è sempre di meno soltanto tra singole imprese e sempre di più tra sistemi e, quindi, il proiettarsi come sistema-paese è un valore aggiunto di cui l’impresa ha sempre più necessità; tanto più questo discorso vale per l’Italia, che ha una morfologia del suo apparato produttivo caratterizzata essenzialmente da imprese di piccola e media dimensione, le quali non hanno, per una ragione dimensionale, dentro di sé tutte le funzioni e tutte le risorse necessarie per proiettarsi sui mercati, e dunque hanno bisogno di ritrovare fuori di sé risorse e strumenti di cui hanno necessità ma di cui sono prive. La costruzione di una strategia di sistema è tanto più necessaria perché in una competizione globale, che esalta l’elemento sistemico, questo valore aggiunto diventa decisivo. Ed è quello che stiamo facendo: stiamo lavorando intensamente – Governo e sistema imprenditoriale – per cercare di costruire sempre di più una strategia di sistema-paese che significa incrociare e intrecciare sempre di più la proiezione del paese dal punto di vista politico con la proiezione del suo sistema imprenditoriale, quindi incrociare politica estera e politica di internazionalizzazione; fare sistema significa mettere a disposizione delle imprese strumenti che accompagnino, assistano, sostengano le imprese nella loro proiezione sui mercati in ragione tale che le imprese non vadano da sole ma avendo alle spalle una dotazione di strumenti aggiuntivi: strumenti promozionali come l’Istituto del Commercio estero, strumenti assicurativi come quelli della Sace, strumenti per gli investimenti come quelli della Simest, strumenti non solo pubblici ma anche privati come il sistema bancario; qui c’è però un punto di fragilità drammatico, perché abbiamo un livello di internazionalizzazione del sistema bancario molto più basso del livello di internazionalizzazione del sistema economico italiano, ed è un ritardo che si sta solo ora piano piano colmando ma che pesa enormemente per l’incidenza che ha la dimensione finanziaria nella globalizzazione e nella politica degli scambi e degli investimenti. Sistema significa inoltre mettere a disposizione delle imprese strumenti di formazione per stare sui mercato; sistema significa mettere a disposizione delle imprese risorse e strumenti per l’innovazione e la ricerca, perché nella competizione globale un paese a costo del lavoro mediamente alto come l’Italia vince soltanto se punta sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione, altrimenti non ce la fa.

Abbiamo bisogno di fare sempre di più questo, ed è quello che stiamo facendo. Mettere in campo una strategia di sistema-paese è oggi essenziale, proprio per fare in modo che la proiezione dell’Italia sia sempre più di tipo sistemico, e si coniughi sempre di più l’immagine-paese con le sue risorse e la strumentazione aggiuntiva che si può mettere in campo, affinchè da una capacità di presentarsi in termini sistemici derivi anche una maggiore forza di competizione e di affermazione.

Credo che tutto quello che ho detto è tanto più vero se pensiamo all’accelerazione straordinaria che hanno i processi di globalizzazione, basterebbe pensare alla enorme enfasi che in questi ultimi mesi ha conosciuto in Italia l’utilizzo delle tecnologie informatiche di comunicazione, da Internet in avanti. Perché in un mondo in cui si abbattono barriere, si abbattono dazi, si abbattono dogane, e anzi ormai con Internet si abbattono perfino i fusi orari, il proiettarsi con questa dimensione sistemica diventa assolutamente necessario, diventa "la" condizione per reggere.

Allora torno alla considerazione iniziale: conta la coscienza che un paese ha di sé, il modo con cui un paese vive la propria identità, la porge, la fa conoscere e ne fa un punto di affermazione e di forza. Quindi penso che questa sia la questione vera e su questo abbiamo una responsabilità tutti: chi governa, il sistema delle imprese, il sistema della produzione culturale. Abbiamo tutti la responsabilità di far acquisire al paese maggiore consapevolezza della forza che ha e di tutte le risorse di cui dispone, perché averne consapevolezza è anche il modo per utilizzarle nel modo migliore, svilupparne tutte le potenzialità e anche assicurare i più alti benefici.